Questo post è un test: sarete voi gli unici a decidere se continuare o meno con la serie o comunque con contenuti del genere. Avviso che il linguaggio sarà crudo.
L’apatia e la rassegnazione che caratterizzano la nostra epoca è perfettamente comprensibile alla luce non solo della catastrofe umanitaria e climatica che coinvolge tutta la civiltà, ma soprattutto rilevando quelli che sono i valori, le aspirazioni, le ambizioni, la produzione letteraria, artistica, digitale e cinematografica dei nostri tempi.
Possiamo, cioè, assaporare questo spirito del tempo e notare quanto esso stesso sia grigio, piatto e amorale, pur proponendo in continuazione una morale. In altre parole, niente e nessuno possono essere ormai considerati poesie o poeti. Dopo aver ucciso Dio, l'uomo ha ucciso la poesia. L'uomo è diventato una pecorella smarrita, senza gregge né pastore.
Abbiamo ucciso la poesia. Niente ha più valore che possa, dunque, in qualsiasi modo, solleticare la nostra umanità nel bene o nel male, al di là del bene e del male. Tutto sembra uguale, visto e già visto, eppure rivisto in continuazione dalle stesse persone. L'abbiamo uccisa noi, la poesia. L'abbiamo impiccata.
L'abbiamo uccisa dimenticandoci dell'unica cosa che ci rende umani. Oltre che Homo sapiens, la creazione, divina, costante, di qualcosa. Non bello, non terribile, cupo, sublime. Solo qualcosa.
E non ne siamo più in grado, perché siamo rassegnati di fronte a ciò che è stato, a ciò che è, ma soprattutto a ciò che sarà. L’onnipotente tecnica ha già escluso l'uomo dalla Storia, lo ha già sottomesso. E noi abbiamo ucciso la poesia perché l'abbiamo permessa, questa sottomissione.
La nostra libertà è già fuori dalla Storia, forza primitiva di creazione. L’Amore, motore fondamentale della libertà, non ha più posto.
Abbiamo ucciso la poesia, e con essa la nostra umanità. Uomini e popoli vengono soggiogati, castrati della propria libertà; amanti uccisi, incapaci di amare. Abbiamo ucciso la poesia, quando l'oro del sole fecondo oltre l'orizzonte divenne solo un tramonto agli occhi dell’assassino.
Abbiamo ucciso la poesia, e con essa torturato e sterminato la vita.
Abbiamo ucciso la poesia e con essa la Giustizia.
Abbiamo ucciso Dio, la poesia.
È ora che l'uomo muoia, che diventi altro da sè.
È ora che si narri il suo suicidio: l'ultimo atto.
Capitolo 1
Letto sfatto, odore nauseante di sigaretta. Perché non farlo? Dirò: non è forse questa la più alta forma di arte? E voi mi risponderete: procediamo. Mi accesi una sigaretta. Sarà stata forse la terza o la quarta. Chi può dirlo.
Comunque, questa prostituta non sembrava schiodarsi dal letto. Ad un mio delicato movimento si levò una nube di polvere, acari, briciole, dotata di vita. Disse: cosa ci fa questa prostituta ancora qui? Per dio! Falla andare via o tra noi è finita!
Hai finito?
Spensi la sigaretta sul materasso, ignorando i lamenti. Quando hai intenzione di andartene? Urlai bruscamente. Non si mosse. Temevo fosse morta.
Non potevo permettermelo, avevo speso tutti i miei soldi in sigarette e alcol. Si svegliò, uscì in mutande, il seno scoperto. Normale amministrazione. Il sole brillando penetrava attraverso le persiane in una immobile poesia luminosa, molecole danzavano e che cavolo, avete capito, insomma non vedevo un cazzo.
Mentre cercavo di alzarmi dal letto, provai a sforzare gli occhi: un fantastico ometto apparve davanti a me, giovane, straordinariamente fallito. L’osservai per un breve istante, abbastanza per vedere tutti voi, per vedere tutti gli uomini così indaffarati per le loro sciocchezze, per le loro cose, per i loro insignificanti ma così gradevoli successi. Sputai catarro sul pavimento dello squallido motel. Ancora leggi? Un po’ di compagnia.
Non importa. Da un po’ di tempo rimbalzava nella mia testa un’idea per la mia ultima opera, un po’ perché mi sono rotto, un po’ perché stavo pensando di progettare il mio suicidio (per lo stesso motivo di prima).
Ebbene, come ultimo mio atto volli darmi da fare, lasciare un segno indelebile su questa cartadaculo, offrire anima e ciò che rimaneva del corpo alla creazione divina dell’arte. Scrissi fiumi di parole, sprecai fogli, poveri alberi innocenti morti per mio diletto.
Affinché l’opera si possa considerare arte, ha bisogno di essere vera, di raccontare il vero, ma poiché la verità a quanto pare si è scoperto essere un nonsense, un nonvalore, e poiché a quanto dicono il mondo è falso, contraddittorio e crudele ecc. allora che ciò si realizzi: che si scriva un’opera falsa, contraddittoria e, so che vi piace, soprattutto crudele.
Sia chiaro, amo la vita, amo gli uomini.
Dicevamo?
La verità, sì, argomento improponibile al giorno d’oggi. Strani tempi corrono! Tutto è concesso, nulla ha senso, niente vale la pena, ma tutti si meritano il nostro odio!
Abbiamo molto tempo da buttare via in queste frivolezze.
In ogni caso, mi piegai leggermente per il dolore: la scorsa notte due ragazzi dovettero pugnalarmi in pancia: giustamente, perché quel tale che pugnalarono non volle dare loro quei pochi spiccioli che teneva in tasca.
Li tenne davvero stretti, mentre si rigirava per terra, sulla strada, per il dolore. Iniziai a scrivere una bozza: la banalità dell’indifferenza moderna risiede non tanto nella facilità dell’indifferenza stessa ma nella banalità dell’individuo moderno. Troppo difficile. Accartocciai il foglio.
Suonarono alla porta. Era la prostituta di prima, aveva dimenticato il reggiseno e la maglietta. Non mi alzai, né la salutai, ormai ero completamente immerso nella nullafacenza. Affilai la punta della mia matita, godendo della nuova punta che andava formandosi. Si spezzò. Riprovai.
Non potevo fare a meno di notare la bottiglia di vodka quasi finita a lato della scrivania e, perché il peggior nemico di un artista è la lucidità, allora iniziai a sorseggiare quel mezzo litro di alcol puro che mi guardava così intensamente. Lo guardai, lui mi guardava, sì non era quasi finito, ho mentito, volevo solo bere, bruciava la gola come l’amore.
Uscii di casa, avevo scritto abbastanza. Puzzavo talmente tanto che l’odore mi si rivelava quasi piacevole, ma in ogni caso mi ero perfettamente abituato, non come le persone a cui passavo accanto, che non esitavano a esprimere con estrema indignazione quell’insulto che ormai ero diventato.
Sì, in effetti lo posso capire perché certi mi disprezzano, ma alla fine dei conti i più non ci fanno quasi caso, indaffarati come sono a odorare il fetore sotto le proprie ascelle. Mi accesi una sigaretta. Continuando così sarei morto in ogni caso dopo qualche anno.
Incontrai un vecchio attore, non mi ricordavo il nome e di certo non glielo chiesi, con cui ebbi collaborato tempo fa, vecchio sia per l’aspetto sia perché era ormai un vecchiaccio senza denti né capelli, un pervertito pedofilo di prima specie, seppur in realtà fosse una persona così gentile!
Temevo che non riconoscendomi mi avrebbe accoltellato, e ne avevo abbastanza di accoltellamenti, per quanto me li meritassi. Non mi riconobbe ma non mi accoltellò. Pareva annusarmi, ma non batté ciglio. Prese a parlare della sua antica carriera d’attore, dei successi, improbabili, inventati, di quando era giovane, delle donne e delle loro curve ancora poco sviluppate.
Sai, disse, una volta ero giovane, bello, ricco, straordinariamente ricco. Avevo più di una casa, molto più di quanto mi servisse, una moglie, un’amante, e dei bambini. Quanto amavo i bambini! Sussurrò.
Tutto andava secondo i piani, ma qualcosa non andava. Tracannò l’ultimo sorso di birra. Tutto era troppo perfetto, ragazzo mio, e poi i bambini! Non si nascondeva più ormai. In ogni caso… la perfezione… sì sai insomma…
Tutto andava dannatamente bene! Urlava senza motivo, ma non era davvero arrabbiato, in realtà quello amava davvero la vita. Non mi pento di quello che ho fatto, anzi, ti consiglio vivamente di sbagliare anche tu allo stesso modo. Bevi! Bevi! Bevi! E soprattutto, non sottovalutare le fanciulle e le loro aspre curvette! Vattene, vattene ora! Concluse soddisfatto.
Schifato, a quel punto continuai a camminare, anche se era davvero una persona gentile e comunque era collassato per l’alcol già da un pezzo, da quando avevo iniziato a raccontargli della mia nuova opera. Camminando per la strada, non riuscivo a pensare a come ideare l’ultimo mio dono per l’umanità.
E ne avevo scritto di capolavori, nonostante non ebbero troppo successo, ma lasciamo perdere, non è di questo che voglio parlare. Ebbene, incontrai una dolce fanciulla sul ciglio della strada. Vedi, l’umanità è malata fin dalle radici, non è possibile curarla, bisogna sradicare le radici e piantare qualcosa di nuovo, di radicalmente nuovo, qualcosa che nessun altro ha mai fatto prima.
L’umanità è malata, sta per morire, paralizzata sul lettino di un maleodorante e sudicio ostello. Vedi, una cosa positiva c’è: ha in mano una bottiglia di alcol vuota. È ebbra, ubriaca, non è fantastico? Sussurra delle parole al vento in un unico estatico flusso, non è straordinario? Manca solo una spinta, un colpo che la faccia precipitare giù dal materasso bucato, che ci faccia infine rotolare per le scale infinite della Storia.
Non mi stava ascoltando, ma non appena ebbi finito di parlare s’iniettò la dose che aveva preparato. No, mi aveva ascoltato, anche lei era un’artista in piena tranche dionisiaca. Certo, le mancava qualche dente, era un essere orribile, informe, ma ne ero certo: mi ascoltò, sollevando di tanto in tanto lo sguardo. In fondo, non è anche questo ciò che ci caratterizza? La disperazione, l’eroina, l’offuscamento.
Mi offrì la siringa mezza vuota.
Mio dio, mi disse, non badare a me, ai miei struggenti tentativi di paragonarmi a te, alla tua onnipotenza, e crea, comprendi e realizza il tuo destino.
Afferrò la mia guancia, si avvicinò al punto che il tanfo proveniente dalla sua gola era oltremodo insopportabile, e pronunciò queste parole: le campane della mezzanotte hanno bisogno che qualcuno le faccia vibrare allo scoccare della fine dei tempi. Svenne e finalmente potei vomitare.


